L'articolo che potete leggere qui sotto e che è uscito ieri sul Manifesto (nella pagina dello Sport) è stato ispirato da due post di questo blog: 1 e 2
Non vorrei esagerare con la serietà ma mi sembra, nel suo piccolo, un esempio di circuito virtuoso tra blog e giornalismo.
(lo copioincollo perchè notoriamente Il Manifesto cancella gli articoli dal suo sito nel giro di una settimana)
LA SQUADRA DEGLI OPERAI CHE FECE LA RIVOLUZIONE
Nel campionato regionale catalano soppravvive il Club Esportiu Júpiter che nel 1925 fu campione di Spagna e sfidò la dittatura
Andrea Sceresini
Barcellona
Prima c'è stata la dittatura, poi la guerra civile. Infine, l'avvento del calcio miliardario, l'esplosione dei grandi club, il consumismo della movida e del lusso sfrenato. Oggi, di quel vecchio stadio non resta più nulla: solo pochi ricordi, incorniciati nelle foto in bianco e nero. L'impianto è stato abbattuto, nel 1948, per ordine del regime. Al suo posto, sono arrivati i locali alla moda, le discoteche e le spiagge dei vip. Una lenta invasione. Che ha cancellato, nel giro di pochi decenni, gran parte dell'antico volto proletario di Barcellona. La squadra, però, continua a giocare. Non a Poble Nou, ma qualche isolato più a nord: dove le vie seguitano ad essere povere e i ragazzini si rincorrono sudati, come una volta, sulla terra battuta all'ombra dei palazzi popolari. Il Club Esportiu Júpiter ha traslocato, ma non ha smesso di vivere. Un tempo, era la selecciòn degli operai. Il suo nome significava sport: fútbol, come si dice da queste parti. Ma anche ribellione, anarchia e lotta di classe. «Io ero bambino negli anni Sessanta - racconta Julio Nacarino, ex presidente e memoria storica del gruppo, mentre fuma intabarrato nel suo giubbotto di pelle - la squadra era già in declino, e Franco ci aveva tolto sia lo stemma che i colori. Ma il mito resisteva, e ci affascinava. Lo fa ancora oggi, che giochiamo nel campionato regionale, dimenticati da tutti. Eppure, nel 1925 siamo stati campioni di Spagna. Abbiamo fatto la rivoluzione, siamo stati in carcere. Questo è stato il nostro Júpiter».
Storie lontane: di un calcio diverso, che predicava l'impegno e la giustizia sociale. E che oggi, forse, ha veramente cessato di esistere. E' il 1909, quando due ragazzotti inglesi decidono di fondare il club. Poble Nou, in riva al mare, è il «barrio» libertario: fabbriche, stabilimenti, strade operaie. La fede, saldamente repubblicana. E, non a caso, i primi soci del Júpiter sono quasi tutti anarchici. Per stemma, si fregiano della bandiera dell'indipendentismo catalano: cinque strisce bianche e quattro rosse, sormontare dalla stella a cinque punte. «Poi col passare degli anni, le connotazioni politiche si fecero sempre più marcate - continua Nacarino - la società si affiliò alla Cnt, il sindacato rivoluzionario, e, più tardi, al Soccorso rosso internazionale. Anche il numero dei soci crebbe a dismisura. Negli anni venti, erano già più di duemila». Ogni domenica, il piccolo stadio in calle Lope de Vega si affolla di donne e lavoratori. Le tribune sono in legno, e non sempre riescono ad accogliere tutti. Poi, nel 1923, arriva il golpe di Miguel Primo de Rivera, e anche per il Júpiter comincia l'epoca delle persecuzioni: «Dovemmo cambiar nome. Il club fu ribattezzato Hercules. Venne imposto anche un nuovo simbolo, più sobrio, e sormontato da una rassicurante corona reale. Molti affiliati furono rinchiusi in carcere, gli altri si diedero alla lotta».
Due anni dopo, a sorpresa, giunge il titolo di campioni di Spagna: si suona la March reàl, ma i tifosi non gradiscono e cominciano a fischiare. Scoppia lo scandalo: per tutta risposta, il governatore militare della Catalogna scatena una nuova ondata di arresti, infliggendo sei mesi di sospensione all'intera società. Sono tempi duri: per il calcio e per i lavoratori. In tutta la Catalogna, imperversano i «pistoleros patronales»: vere e proprie bande di sicari, organizzate al soldo degli industriali. Anche la Cnt ricorre alla lotta armata. I suoi leader sono Durruti, Ascaso e Garcìa Oliver: «los Solidarios», un nome che ben presto entrerà nel mito. Scioperi, sparatorie e attentati accompagnano ogni contrattazione. E il Júpiter, ovviamente, non resta a guardare: «Il club versava al movimento gran parte dei suoi incassi - spiega l'ex presidente, senza nascondere un orgoglioso sorriso - in breve tempo lo stadio si trasformò in un arsenale. Le pistole venivano smontate e nascoste dentro i palloni, durante le trasferte. Così operai, calciatori ed anarchici condussero fianco a fianco le proprie battaglie». Solo la fuga del re e la nascita della repubblica riusciranno, in qualche modo, a porre fine al massacro. E' il 1931. Il 25 settembre, Poble Nou accoglie Francisc Macià, leader della sinistra catalana: vecchio, coi capelli bianchi, anche lui reduce dalla galera. La folla si assiepa commossa, mentre un fotografo improvvisato immortala in un flash lo storico istante. Tocca al vecchio combattente restituire alla squadra il suo antico stemma: rosso, giallo, e stella blu. Lo stesso che la dittatura aveva deciso di cancellare.
Durerà comunque poco: solo qualche anno. Il 19 luglio del 1936, all'alba, tutta Poble Nou si sveglia di soprassalto. Le fabbriche suonano le sirene e gli operai escono in fretta, mentre per le strade una grossa notizia si sta diffondendo: i militari di Franco hanno appena abbandonato le caserme. Anche a Barcellona è cominciata la guerra civile. «I nostri vecchi hanno vividi ricordi di quella giornata. La folla si diresse allo stadio: c'erano tutti, persino qualche calciatore. Faceva caldo e il terreno brulicava di uomini. Le armi scarseggiavano, ma d'un tratto si cominciò a cantare. Era una vecchia melodia, l'inno della rivolta delle Asturie: A las barricadas. Infine, i lavoratori raccolsero i fucili, poi si schierarono ordinatamente, nello spazio tra le due porte. E fu da lì, dal campo del Júpiter, che partirono per fare la rivoluzione». Non tutti, però, riusciranno tornare. Per molti, di lì a pochi mesi, si apriranno nuovamente le porte delle carceri. Per altri, quelle dell'esilio: la vittoria del fascismo segnerà, anche per il Júpiter, l'inizio della fine.
Oggi la squadra si allena alla Verneda. Arrivarci, dal centro, è piuttosto complicato: c'è da prendere la metro, e poi a piedi, fino alle gradinate grigie che danno sulla ferrovia. Il quartiere si chiama San Martì, e quando il club vi fu esiliato, negli anni quaranta, altro non era che aperta campagna. In una saletta, sotto le tribune, giacciono ammassate decine di trofei. C'è la foto con Macià e, da qualche parte, anche un polveroso stendardo, cucito dalle donne del quartiere nell'epoca delle ribellioni. «Dobbiamo mettere un po' a posto», confessa un ragazzo dal cappellino bianco. I suoi coetanei, intanto, hanno appena finito di giocare. Sono soddisfatti, perché questa domenica è trascorsa bene: 2-0 al Sitges, una rappresentativa dell'hinterland. Molti, passando, lanciano un'occhiata alle vecchie medaglie. I più giovani sorridono: c'è chi sogna il Barça, chi il Real Madrid. Anche loro, in qualche modo, vogliono cambiare il mondo.
Ma ha segnalato da qualche parte la fonte (cioè questo blog, o almeno il tuo nome)?
RispondiEliminabè è un articolo non un trattato. e piste ha fornito solo un'ispirazione iniziale, poi il lavoro lo ha fatto lui e ci ha restituito - in termini di informazioni sull'argomento - più di quanto gli avessimo dato. questo intendo per circuito virtuoso.
RispondiEliminaE non lo hai neanche pagato, pensa.
RispondiEliminainfatti. è l'economia del dono predicata da Pallante & C.
RispondiEliminae poi l'importante è che trionfi l'anarchia non il mio nome
:-)