Le chiamavano scalate. Dell’Unipol alla BNL, degli odontotecnici al
Corriere. E io mi figuravo questo esercito di figuranti in abito blu (e cravatta rosa, volendo) che marciavano fino al prossimo rifugio per ordinare uno Zavov (con la panna montata, volendo). All’alba si rimettevano in marcia nelle scarpe chiodate, per camminare fino al tramonto. Come unico passatempo, ammesso che lo scalatore non si identificasse completamente con il tempo della salita, mi immaginavo una sorta di grande politica dell’uso del cellulare, una logorante partita di scacchi giocata sulla competizione delle suonerie. Qualcuno si sarebbe perso d’animo, nelle mie immaginarie cordate finanziarie, qualcuno avrebbe raggiunto la meta (ed erano ovviamente le più merde, dovendo dare sfogo al mio risentimento di classe). Allora il sogno mi riconduceva ogni volta in una baita, che chiameremo del potere, con i ventri appannati dal calore della stufa, il soffitto di travi e un'ecatombe di pelli d’orso ad accogliere i piedi gonfi degli scalatori più selezionati. Sui divani, un numero imprecisato di segretarie che conoscevano Proust a memoria e interpretavano l’amplesso come un colpo di stato, più belle e fatali di una costellazione, aggiornavano le agende e osservavano con trasparente disprezzo le espressioni sconvolte dei loro titolari. Per me le scalate si concludevano sempre lì (ed è un problema, volendo), nell’ora dell’aperitivo carico di promesse sadiche che contraevano la pace ovattata di un interno borghese. Ho dovuto aggiornare il mio sogno (ed emendarlo, volendo) alla luce della recente scalata di Cragno e di Wile al consiglio di amministrazione del blog. Nel senso che a inserire i propri conoscenti nel cast delle proprie perversioni si fa sempre fatica. Benvenuti.