giovedì, gennaio 07, 2010

Placido ricorda Praz

PROFESSOR SATURNO
Repubblica — 17 giugno 1993 pagina 35 sezione: CULTURA

Non mi piace il modo in cui torna alla ribalta un maestro glorioso come Mario Praz. Non mi piace il modo in cui viene ricordato. Si, lui, proprio lui, Mario Praz. Ovvero - per non pronunciarne il nome - l' Anglista. Ovvero, per evitarne il cognome (per carità, chissà cosa può accadere) l' Innominabile. Ma quale Innominabile. Piantatela piuttosto di ricorrere agli scongiuri, di toccar ferro, di abbozzare i vostri grotteschi gesti apotropaici. A nominare Mario Praz, a leggerne il nome stampato, non succede proprio niente. Eppure il Professore viene ricordato (quando viene ricordato, ciò che è un bene) innanzitutto per quella. Per la sua mala fama di iettatore. Lo ricorda così Giorgio Soavi nel racconto centrale "Professore di inglese" del suo Passioni, tre storie da romanzo (Camunia, 1993). Lo ricorda così l' autorevolissimo studioso francese Marc Fumaroli (quello de Lo Stato culturale, Adelphi) nell' introduzione a Le monde que j' ai vu, una raccolta dei saggi di Praz tradotti e pubblicati adesso in Francia (Julliard, Parigi, 1993). Nell' uno e nell' altro caso - nel racconto di Soavi, che è un garbato, affettuoso racconto, nello scritto introduttivo di Marc Fumaroli, che è serio e documentato - le solite storie. Piombi che si squagliano, in tipografia, all' apparizione di un articolo di Praz. Ascensori che misteriosamente si fermano (si fermavano) quando lo si va (lo si andava) a trovare nella sua casa, la famosa "Casa della vita". Lampadari che crollano, o minacciano di crollare, mentre egli vi offre (vi offriva) in quella casa stregata il tè. Ancora: si evita accuratamente di nominarlo, pur riferendosi evidentemente a lui, in quell' eccellente energico saggio-pamphlet che è Di scuola si muore di Giovanni Pacchiano (Anabasi). Niente di tutto questo risulta a chi scrive. Ho frequentato le lezioni di Letteratura inglese di Mario Praz per due anni successivi (erano gli Anni ' 50). L' ho visto e sentito qualche volta, dopo. I piombi non si squagliavano, le lampadine non esplodevano, gli ascensori non si fermavano. Nell' autunno del 1963 c' era non so qual Convegno letterario a New York. C' era anche lui, Praz. Andai a stringergli la mano, prima della partenza: "Professore, io parto domani, posso salutarla?". "Buon viaggio", mi augurò. "Buon viaggio!" rifecero sgomenti gli anglisti, gli americanisti presenti alla scena. Ma davvero vuoi partire domani? Gli hai stretto la mano! E mi consigliavano di cambiare volo. O di prendere la nave. Alcuni, di tornare in Italia a nuoto. Non si sa mai, con la iettatura. Non accadde nulla, naturalmente. Nulla di speciale. Gli aerei non cascano per così poco. E i lampadari nemmeno. Ognuno può coltivare le superstizioni che crede, si capisce. Correndo però il pericolo di sprecare tempo ed energie, nei suoi faticosi (e sconvenienti) rituali di scongiuro. Non avendo la suddetta preoccupazione, mi impegnai ad osservarlo, in quei due anni dei lontani Anni Cinquanta. Per tentare di carpire il suo segreto. Doveva averne uno. Perché era così difeso, così chiuso? Così gentile ma riservato, ma impenetrabile? Tiro ad indovinare. Non si sentiva amato. Non si sentiva fisicamente amabile. Il modo in cui leggeva in classe il più celebre verso del Doctor Faustus di Marlowe: "Sweet Helen, make me immortal with a kiss" non lasciava dubbi, in proposito. Non c' era nessuna Elena - egli pensava - che avesse voglia di renderlo immortale (quanto meno: un po' meno infelice) con un bacio, una carezza. Le sue lezioni universitarie erano secche e semplici. Austere, esemplari. Non concedeva molto. Non si concedeva. Ma una mattina, me ne ricordo benissimo, si abbandonò ad una lunga, imprevedibile divagazione. Si mise ad elencare tutti i luoghi - romanzeschi o poetici in cui si parla di povere vite perdute, o incompiute. Fallite, spezzate. Di promesse non mantenute, di fiori non sbocciati, o se sbocciati non raccolti. Di talenti deperiti nella penombra. Pareva non dovesse terminare mai, quell' elencazione elegiaca. La sua cultura prodigiosa gli suggeriva associazioni nuove, nuovi esempi. Ne ricordo, sfortunatamente, uno solo. Quello che chiude la poesia "Le Guignon" (la scalogna, la malasorte) nei Fiori del male di Baudelaire. Dove si parla di fiori che invano cercano di attrarre a sé l' attenzione, emanando il loro profumo migliore, che si disperde però nella solitudine: "Mainte fleur épanche à regret / Son parfum doux comme un secret / Dans les solitudes profondes". Ci ho ripensato. Leggendo l' introduzione di Fumaroli che ho dianzi citato. L' illustre studioso francese si chiede - è una vecchia domanda - perché le collezioni di Mario Praz, le celebri collezioni - quadri, ninnoli, oggetti - custoditi nella sua celebre Casa della vita non contengano capolavori. Ma certo! A lui non interessavano i geni, i picchi. Quelli costruiscono dei capolavori, che saranno ricordati. A lui interessavano le realtà medie, ma decorose; le esistenze medie, ma decorose, che saranno fatalmente dimenticate. Sono queste che egli teneva a ricordare, a conservare (non è questa una funzione della Letteratura: riscattare dall' oblio le piccole esistenze?). Forse temeva che anche la sua opera sarebbe stata inesorabilmente dimenticata. Non è così. Non ancora, per fortuna. Ma quant' è triste veder ricordato Mario Praz - l' Anglista, l' Innominabile - sempre e quasi soltanto per le sue presunte influenze malefiche. Faceva squagliare i Piombi (di Venezia?), faceva crollare i lampadari. Non mi sembra rispettoso nei confronti di questo grande studioso che ci ha lasciato La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Questo figlio di Saturno. Questo gran malinconico. Nominabilissimo. Nobilissimo. - BENIAMINO PLACIDO

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