Ricevo e volentieri pubblico
La crisi si vede a occhio nudo, senza bisogno di lenti speciali o di esperti. E' licenziamenti, riduzione della settimana di lavoro, cassintegrazione, chiusura delle fabbriche. Ha cause strutturali e morali - è stato detto - dipende dal funzionamento dei mercati e dal comportamento degli uomini. Degli uomini impiegati nei centri di comando, soprattutto, che dal 2001 sapevano tutto e non dicevano niente, badando solo ad arricchirsi. Solo che il difetto morale, al di là delle variabili psicologiche, era già inscritto nel dna della dottrina, in base alla quale sarebbero stati i mercati - e non gli uomini - a farsi la propria legge.
Ci fu un momento, in seguito alla caduta del muro di Berlino, in cui questo principio divenne universale. Anche i partiti di sinistra, per dire, si affrettarono a mercificare tutto: luce, acqua, gas, poste, trasporti pubblici. Lo fecero indirettamente, ma mercificarono pure la scuola (dirottando i finanziamenti sugli istituti privati), l'esercito (con il fenomeno dei mercenari) e la sanità (con l'affermazione del terzo settore, i tagli al sistema nazionale e la conseguente trasfusione dei pazienti, quando se lo fossero potuti permettere, nelle cliniche private). A tutto questo, ai prodotti della dottrina che ha cominciato a collassare con la crisi dei mutui subprime, negli Stati Uniti, l'opinione pubblica ha garantito un appoggio incondizionato. Ci fu un momento in cui tutti si misero a dire che il privato era meglio del pubblico e fu esattamente quello, nei pranzi di famiglia o al bar, il momento in cui ognuno si assunse le proprie responsabilità. Si enfatizzò il ruolo della società civile, senza rendersi conto che in assenza di comportamenti virtuosi, le società sono più incivili degli stati.
A opporsi furono davvero in pochi. Qualche partito comunista, che però non seppe emanciparsi dal proprio ruolo residuale, oppose alla nuova tendenza ideologica le parole di Marx, di Trotzkij o del subcomandante Marcos. Il movimento di Seattle e di Genova tentò di raccogliere l'eredità del movimento operaio e di fonderla con le nuove istanze della disobbedienza, del civismo e della teologia della liberazione.
Quei partiti residuali, oggi, sono stati espulsi dalle camere di rappresentanza, mentre ai noglobal è toccata una sorte più controversa. Avevano previsto tutto: la guerra, l'erosione della democrazia, la crisi. Avevano previsto che i mercati non si sarebbero fatti nessuna legge diversa dal profitto, che la meritocrazia e l'efficienza non erano altro che retoriche vuote, che i capitali avrebbe continuato ad accentrarsi, che la povertà si sarebbe diffusa e che il sistema finanziario sarebbe scoppiato. Ci sono i documenti, ci sono le analisi di personaggi contigui al movimento come Jean-Paul Fitoussi, Joseph Stiglitz, Ignacio Ramonet, Susan George e tanti altri. Eppure, capita nella storia che chi aveva ragione ottenga meno credito e seguito di chi aveva torto ed è necessario che qualche domanda i movimenti se la pongano. Il difetto principale dell'azione che hanno condotto negli ultimi dieci anni, forse, consiste nel ricorso sistematico alle semplificazioni dell'etica.
Il luddismo degli sfasciatori di bancomat e, sul versante opposto, il terzomondismo della componente cattolica si sono arrestati al sabotaggio e alla denuncia. Furono in tanti a diventare noglobal sull'onda della spettacolarizzazione del conflitto o delle campagne di cancellazione del debito, ma i noglobal non seppero trasformare questa materia di dissenso in consapevolezza e azione. L'idea che fosse criminale continuare ad affamare gli africani per poi rinchiuderli nei centri di permanenza doveva rappresentare un punto di partenza, per esempio, non un approdo. La contestazione della Banca Mondiale, del WTO, del G8 o del Fondo Monetario Internazionale si sarebbe dovuta esprimere nell'individuazione dei vari livelli decisionali sui quali avrebbero potuto agire le scelte dei singoli con il voto e le campagne di pressione. I noglobal, forse, si sono tenuti alla larga da questo lavoro di precisazione perché li avrebbe obbligati a compromettere le proprie istanze, inducendoli al passaggio dalla reazione etica all'azione politica.
E' ingiusto che il 20 percento della popolazione mondiale gestisca l'80 percento delle ricchezze, come si diceva nel 2001, che i prestiti internazionali vincolino i debitori a svendere le proprie fonti energetiche e a comperare l'acqua dalle multinazionali, che otto delinquenti si ritroviano annualmente a scattare qualche fotografia mentre gestiscono gli affari propri e di qualche mandante. E' tutto molto ingiusto, non c'è dubbio, e la crisi economica non è altro che il riflesso locale di questa ingiustizia complessiva. Ma a questo punto, allora, si tratta di ammettere che la sfera in cui queste cose cambiano è necessariamente la politica e che continuare a dissociarsene invocando più giustizia e moralità, quindi, è un atto di profonda ipocrisia. Oggi che tra i paesi sottosviluppati ci siamo anche noi tutto questo mi sembra più urgente, possibile e chiaro.
tutto bello e discutibile, salvo l'ultimissima frase, che è un distillato di idiozia ed un insulto al terzo mondo.
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