Se il caso Sofri ci ha insegnato qualcosa, è quanto sia inutile scriverne su un blog.
Anche su libri e quotidiani, se è per questo. Non è servito l’appello di intellettuali e artisti, non è servita una raccolta di firme, né un digiuno. Tutto questo è stato fatto, e Sofri è rimasto dentro. Otto anni – che sono tanti, se vi prendete solo un attimo per rifletterci.
Non solo tutta questa attenzione non ha aiutato un uomo a uscire di galera: ma c’è da riflettere se non sia stata dannosa; se non abbia semplicemente eccitato l’animo capriccioso dei suoi odierni carcerieri. Dovevamo dimenticarcene, di Sofri: e lui a quest’ora sarebbe libero. Forse. Di certo, oggi non è più libero di ieri grazie a noi.
Se il caso Sofri ci ha insegnato qualche altra cosa, è quanto sia pericoloso scrivere. Su un blog. O su una rivistina, come si faceva una volta. E forse è questo che rende i blog così sensibili al caso Sofri: perché in qualche modo gli parla di loro.
Fateci caso: tutto iniziò con un flame innescato da giovani articolisti di belle speranze, che se la prendevano con un commissario di Polizia. Toni accesi, accuse pesanti, ma d’altronde si sa, la gioventù. A quel tempo non c’erano i blog per rovesciarci le opinioni ancora giovani e calde: ma c’era Lotta Continua e lo dirigeva Adriano Sofri. Oggi farebbe la blogstar (i sintomi ci sono: grafomania, opinionismo selvaggio…)
Di quei vecchi post articoli, scritti e lasciati scrivere, il vecchio Sofri si è vergognato pubblicamente più volte – e ancora a qualcuno non basta. E dire che è solo carta (e non è la carta a uccidere gli uomini). Una sottile fibra di cellulosa che in pochi anni ingiallisce e si consuma – per dire, io quei famosi articoli di Lotta Continua non li ho mai letti. Eppure, per quanto sottili, quei fogli di carta hanno segnato almeno una vita.
Capita a tutti di pentirsi di qualche scritto giovanile – ma un tempo almeno la carta ingialliva. Oggi no. Oggi c’è la cache di Google, e se serve anche l’
Internet Archive. Gli archeologi del domani sapranno distinguere un’annata dall’altra in base allo stile del template. Ma non c’è rischio che un post sbiadisca o scompaia. Rimane tutto, ragazzi. Ogni singola stronzata che scrivete. Per favore. Pensateci.
Prima di infamare una persona che non conoscete – così come Sofri al suo tempo non conosceva di persona il commissario Calabresi. Prima di giocare a fare i giudici, prima di sputare sentenze. D’accordo, siete
giovani, forse vi sembra un gioco. Non è un gioco. La scrittura è un affare serio. Non vi aiuta, non vi salva, non cambia il mondo, ma in compenso vi può rovinare; può farvi vergognare per una vita intera di una
scemenza scritta o lasciata scrivere con leggerezza a vent’anni. Se il caso Sofri ha qualcosa da insegnarvi, è appunto questo.
E voi non state imparando, sciocchi.
Nel corso di questa campagna, questa posizione diventò una posizione abitudinaria, compiaciuta. Una specie di gusto inerte, diciamo, dell’insulto, del linciaggio, della minaccia, si è impadronito di noi e non solo di noi. (Adriano Sofri, dal libro L’eskimo in redazione di Michele Brambilla, Bompiani, 1993)