E’ piuttosto noto che Cassius Clay, futuro
Muhammad Alì, si rivela al mondo in occasione delle olimpiadi di Roma del 1960.
E’ in quell’occasione che il suo nome arriva per la prima volta sui quotidiani
italiani. Questo il suo esordio sulla Stampa:
« (…) Se ne vanno i «Canguri » e
arrivano gli statunitensi. Masticano gomma americana e gettano occhiate
interrogative al cronista. Compongono la squadra da battere, la compagine che
ha dalla sua i pronostici generali della vigilia. L'uomo di punta (guarda caso!)
è pure un mediomassimo. Si chiama Cassius Clay. Ma negli Usa è conosciuto,
negli ambienti pugilistici, come l' «assassino» per la potenza dei suoi pugni
che «ammazzano » i rivali, per la sua cattiveria e per la sua selvaggia
irruenza. Clay sale sul ring con aria spavalda, si guarda attorno con fare
tronfio, si allaccia stancamente la maschera protettiva, brontola qualcosa
all'indirizzo del suo manager, poi incomincia a malmenare il rivale. Il tecnico
della squadra americana è costretto ad intervenire un paio di volte per frenare
l'azione dell'«assassino » che sorride ogni qualvolta mette a segno un pugno
secco e maligno. Vedendolo all'opera è logico che si pensi a cosa potrà
accadere se il sorteggio metterà di fronte l’australiano Madigan a questo Cassius
Clay. »
Un calabrese tra i pugili australiani
La Stampa, 24 agosto 1960
Più note ancora sono le sue vicissitudini successive con la leva militare e la guerra del Vietnam. Eppure nel 1964, tre anni prima di fare il gran rifiuto, Clay era già stato giudicato inabile al servizio militare, cosa che aveva suscitato qualche perplessità nell'opinione pubblica e un'interrogazione parlamentare. "E' stato esaminato due volte", la risposta dei militari, di cui la seconda alla presenza di un esperto psicanalista ma niente, non ce l'aveva proprio fatta a livello intellettivo.
La Stampa, 21 aprile 1964
La questione della renitenza alla leva gli procurerà una condanna a cinque anni di prigione (contro la quale farà appello, evitando il carcere), il ritiro del titolo mondiale, l'impossibilità di esercitare la professione per tre anni, il boicottaggio della stampa americana e l'odio acceso di quella conservatrice. La cosa diventerà talmente proverbiale che chi, in quegli anni, voleva denunciare di essere vittima di una campagna mediatica spesso diceva "sono come Cassius Clay per i giornali conservatori". Persino il rientro sulle scene della boxe, avvenuto nell'ottobre 1970, prima del definitivo pronunciamento della Corte Suprema sul suo caso, come rileva La Stampa, viene pressochè ignorato dai media mainstream americani
La Stampa, 23 ottobre 1970
La Corte Suprema si esprimerà nel giugno del 1971 annullando la condanna per renitenza a causa di un vizio di forma che viene presentato nel seguente modo dalla corrispondeza ANSA:
Muhammad Ali, alias Cassius Clay, ex campione del mondo dei pesi massimi, ha conquistato oggi — nell'aula della Corte Suprema degli Stali Uniti - la vittoria forse più difficile della sua carriera: tutti gli otto giudici componenti il Tribunale si sono espressi a suo favore e hanno cassato la condanna a cinque anni di reclusione (e centomila dollari di ammenda) per renitenza alla leva. L'unico giudice negro della Corte, Thurgoed Marshall, non ha partecipato al dibattito.
Si conclude cosi, nel migliore dei modi per Muhammad Alì una vertenza giudiziaria iniziatasi il 28 aprile 1967, giorno nel quale l'allora campione del mondo in carica della massima categoria pugilistica si era rifiutato — sfidando l'opinione pubblica — di compiere il passo avanti nella tradizionale cerimonia alla visita di leva. La World Boxing Association, con un provvedimento che doveva suscitare polemiche accese in tutto il mondo, e quanto meno affrettato, toglieva il titolo mondiale a Muhammad Ali, senza aspettare che la condanna passasse in giudicalo. Anche se le altre organizzazioni, come la Wbc, continuavano a considerarlo il vero campione, e soprattutto continuavano a considerarlo tale tutti gli appassionati di pugilato del mondo, per il pugile fu la fine di una carriera sensazionale. E cominciava tutta una serie di ricorsi e battaglie giudiziarie, conclusasi soltanto oggi, davanti alla Corte Suprema.
La Corte Suprema ha accettalo la tesi difensiva di Muhammad Ali, che sosteneva di non dover prestare servizio militare perché ministro del culto dei «Musulmani neri », senza avallarne la qualifica di ministro, ma riconoscendo la fondatezza della obiezione di coscienza. L'illegittimità della condanna inflitta a Clay in prima istanza è da ricercare — secondo la Corte Suprema — in una lettera del Dipartimento della Giustizia inviata alle autorità di leva. Tale lettera, ha osservato la Corte Suprema, raccomandava di respingere l'appello di Clay, in quanto le richieste del pugile apparivano sospette per le circostanze e il momento in cui venivano fatte. Clay chiedeva di essere esentato dal servizio militare sia come obiettore di coscienza, sia in quanto ministro della setta religiosa dei «Musulmani neri». In quest'ultima veste, egli poteva solo partecipare a «guerre sante proclamate da Allah». Tale quali moveva un'opposizione politica camuffata da obiezione di coscienza. Clay, a tale proposito, si era limitato a dire che «non aveva nessun motivo per litigare con i vietcong ». La Corte Suprema comunque non si è pronunciata su questo punto, basando la sua sentenza sull'indebito intervento del Dipartimento della Giustizia che aveva indotto le autorità di leva a non concedere a Clay il diritto d'appello (Ansa-Ap)
La Stampa, 29 giugno 1971
Da questo momento la carriera di Alì può ripartire davvero, portandolo a ulteriori vette di gloria, tra le quali il famoso incontro con Foreman in Zaire e la riconquista del titolo mondiale per altre due volte, di cui l'ultima il 16 settembre 1978. Ma a quel punto il declino è già cominciato, si avverte che ormai il pugile è a fine carriera e ci sono giovani leoni che spingono per sostituirlo. Anche se il ritiro definitivo avverrà nel 1981, a fine 1979 La Stampa lo celebra tra i miti del decennio. Quello che va chiudedosi.
La Stampa, 27 dicembre 1979
Curiosamente, lo stesso giorno, La Stampa pubblica il resoconto di una lezione universitaria tenuta da Alì alla New School for Social Research di New York:
(...) E' raro che un personaggio
diventato celebre a forza di pugni abbia tanto istinto per la parte spettacolo
della vita. Quando ascolta, Muhammad Ali chiude un po' gli occhi e inclina di
lato il bel testone robusto che sembra almeno dieci anni più giovane, una
faccia libera da qualunque pensiero al mondo. «Perché dovrei avere pensieri? Ho
guadagnato bene e continuerò a guadagnare. Per esempio. Nessuno sa dire con
esattezza se mi sono ritirato o no dalla carriera di pugile». Sorride e
aspetta. Ma è il tipo che provvede da sé alla risposta se la domanda non viene:
«Mi sono ritirato e non mi sono ritirato. Se un giorno si troverà nelle mie
condizioni si ricordi, l'ambiguità è l'anima del commercio». Non la pubblicità?
«No. L'ambiguità. Se sei abbastanza misterioso ti cercano anche per la
pubblicità. Del resto l'ho imparato dai politici». Grayson, il professore, si
intromette con ansia. Vuole spiegare perché ha portato Cassius Clay (ora Muhammad
Ali) a fare spettacolo in una scuola universitaria che è stata tra le più
prestigiose in America. Dice con stizza: «Ma non è uno spettacolo». Indica a braccio
teso il gigante elegante e divertito: «Non è uno spettacolo. E' una classe di
storia, di sociologia e di antropologia». Interviene Muhammad Ali indicando con
grande piacere se stesso: «Sentito? Sono una biblioteca ambulante».
Muhammad
Ali è benevolo e divertito. Ma la sua grande presa sulla gente è nel sospetto
che sappia anche essere serio, come del resto lo è stato nella sua professione.
Per esempio, all'improvviso, diventa quieto, triste. Dice lentamente, come se
si sforzasse di ricordare a memoria: «La vita di un bambino negro è come
raccontare le fiabe. Si attraversa la foresta, si affronta la strega, si imbroglia
il mago e si trova la polvere magica. Dall'altra parte c'è un castello senza
porte, ma con tante finestre piene di luce e di gente allegra che beve
champagne. Si chiama: “la casa dei bianchi”. Naturalmente non è vero che tutti
sono felici e bevono champagne nella casa dei bianchi. Ma questo è ciò che vede
il bambino negro che ha attraversato la foresta». Muhamrnad Ali si guarda
intorno. Chiede a se stesso, più che al suo ascoltatore: «E' vero o non è
vero?». Si tocca i capelli con quel gesto di vanità adolescente che l'ha reso
famoso, come per pettinarsi. E continua. «Poi ci sono i tornei, le sfide, i
duelli. Devi affrontare il drago nero, il drago bianco e la polvere magica».
Spia gli occhi di chi l'ascolta, per essere sicuro che quello che dice non va
perduto. Il drago nero è la lotta tra noi. Il drago bianco siete voi, ancora
troppo stupidi per non giocare al nemico. La polvere magica sono tutte quelle
cose che la polizia chiama "droga", e che per le strade dei nostri
quartieri si trova nelle mani dì tutti i bambini. Polverine omicide, capsuline
omicide, piccole iniezioni omicide. Si può Immaginare un mondo più misterioso e
più magico? Quelli di noi che sono più forti, come nelle fiabe, devono prendere
lo spadone e combattere».
Muhammad Ali alza e mostra in avanti le sue grandi
mani nere, di cui è sempre stato così orgoglioso. Con la sua famosa capacità di
passare da una cosa seria a una ridicola dice con voce più bassa, come in
«fuori campo: «Notare come sono curate le mie mani. Eppure sono le mani di un
pugile». Ali di nuovo diventa stranamente triste, guardandosi le mani. Le
mostra in avanti come farebbe un ragazzino con la maestra. «Immagini di vedere
queste mani In un obitorio. Avanti, lo immagini. Su un tavolo di medicina
legale». L'idea è lugubre e per un momento si può anche pensare a un modo di
ragionare stravagante, erratico. Muhammad Ali invece è uno che resta attaccato
ostinatamente al suo punto. Ma ha un incredibile senso della sorpresa
pedagogica. Per questo i bambini americani lo adorano. Qui va avanti lungo due
strade, che poi sono il suo ritratto. Una è la vanità, che ha sempre un tocco
curiosamente adolescente e immaturo (se uno glielo dice, ribatte: «Fa parte del
mio fascino». L'altra seria e quasi drammatica. Infatti dice: «Vede? Sono mani
giovani. Sembrano mani di uno che ha vent'anni. Una gran bella cosa avere I
mani giovani, non le pare? Alle donne piacciono gli uomini con le mani
giovani». Ma si ferma e cambia percorso: «Vede? Queste mani le poteva trovare
su un tavolo di autopsia quando avevo dodici anni, quando ne avevo sedici,
quando ne avevo venti, sto indicando solo tre delle tante volte che a un
ragazzo negro come me può succedere di farsi ammazzare come uno stupido. Sa
quante mani cosi ci sono, adesso, mentre parliamo, sui tavoli di medicina
legale di questo paese?». Dall'immensa cassa toracica di cui dispone, Muhammad
Ali tira fuori un respiro che potrebbe far suonare un organo: «Ma io ho vinto.
Io dico che ho vinto a nome di molti ragazzi negri. E anche a nome di tanti
altri. Attraversare quegli anni che le dicevo, nella foresta e davanti al
castello, non è mica solo una favola negra. E' la favola di essere giovani. Io
ci penso con terrore. Essere bambini è conoscere la parte tragica della vita.
Bianchi o negri, non fa differenza. La maschera triste si scioglie in un grande
sorriso. Anche adesso a Muhamrnad Ali preme di fare il maestro. E conta sul suo
senso del ritmo, dello spettacolo. Non aspetta risposta, non l'aspetta mai. Le
sue conversazioni, anche quando ci sono pause o attese, sono lunghi monologhi.
Una manata sulla spalla, da un uomo come lui, vuol dire affrontare con dignità
un serio problema di equilibrio. Muhammad Ali provvede anche a questo. Con una
mano dà la botta che deve essere interpretata come un gesto amichevole. Con
l'altra provvede a offrire un sostegno «Vede — di nuovo mostra se stesso —. Non
sono un ottimo professore?». Gabriel Grayson, il presentatore, che stando
accanto al campione appare troppo piccolo e troppo insicuro, fa strada per
entrare nell'aula. Gli studenti, un pubblico che va dai diciottenni alle
signore con i capelli azzurri temporaneamente libere da impegni, si alzano
e applaudono. Raramente in una classe universitaria il docente saluta con le
mani alzate e congiunte, nel classico gesto del pugile. Ma chi dovrebbe farlo
se non lui? Esordisce con questa piccola poesia, guardandosi intorno,
sinceramente contento: «La mia conoscenza / serve più della scienza / per capire
in profondo / quel pasticcio che è il mondo». Aspetta che finisca il gran
rumore di sedie. Aspetta che tutte le facce siano attente e che tutti lo
guardino. Aspetta con le mani in grembo e le gambe incrociate. Lascia passare
un minuto. Infine, abile, sottovoce, inizia la sua lezione: «Bisogna sapere,
ragazzi, che quella che noi chiamiamo civiltà è una cosa impastata con molte
bugie. Non dico mica di fare crociate per cancellarle queste bugie. Dico solo:
sappiatelo. E ricordate sempre che da quelle bugie cominciano quasi tutte
quelle cose che gli esperti di politica chiamano problemi...». Il professore di scorta tossisce nervoso. Il
resto nella sala ascolta in un silenzio affascinato e assoluto. Furio Colombo
La Stampa, 27 dicembre 1979
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