venerdì, aprile 22, 2005

ancora un poco e non mi rivedrete

C'è stato un periodo in cui scrivevo, tanto, per i fatti miei, senza far legger niente a nessuno (chiamiamola pubertà, anche se protratta indecentemente). Si chiamavano poesie, racconti, pensierini. Bruciare tutto.

Poi c'è stato un periodo in cui qualsiasi cosa scrivevo aveva dei lettori, pochi, ma esigenti, che collaudavano e correggevano a penna rossa. In quella fase in realtà non scrivevo nemmeno: scrivevamo. Ogni congiuntivo, ogni avverbio era immediatamente socializzato. Si chiamavano articoli, inchieste, saggi. Uscivano su riviste appositamente fondate. Conservare sullo scaffale più in alto, ogni tanto spolverare.

Poi ho scoperto internet e mi sono sentito libero di scrivere tutto quello che volevo, senza più condizionamenti sociali. Mai più mi avreste soppresso i miei avverbi preferiti, l'accento sul "se stesso". Si chiamavano mail torrenziali, e poi post, scritti sul blog. Virtualmente, potrebbero sopravvivermi su qualche server in California (se mi sopravvive la civiltà occidentale, e non è detto).

Poi, dopo tanto scrivere dei fatti miei per me, mi sono sentito solo. Ma sì, quelle belle redazioni di una volta non erano così male. E che bello vedere articoli di persone diverse su una stessa pagina, come musicisti in un gruppo, ognuno al loro posto. Allora ho aperto questo piccolo blog e ho mandato l'accredito a qualche vecchio redattore. Non è che voglio fare una rivista on line, ce n'è già. Ma giusto per tenersi in contatto, ormai ci vediamo così poco.

Non prendetela per una riunione di redazione, piuttosto per la post-riunione in birreria, che per me era un momento altrettanto prezioso. Sul serio, anche se per molto tempo mi sono fatto i fatti miei, in realtà avrei voglia di sapere come vi va, al telefono sono una frana. Tutto qui.

Non so neanche perché ho scritto questo, in realtà volevo avvisare che su Piste potrei latitare un po', visto che mi sono messo a scrivere anche su Vita, il prestigioso portale del non profit. E' sempre la mia sfrenata avidità che mi spinge a fare queste cose. Voi però scrivete qualcosa ogni tanto, dai. Tenetemi al corrente.

martedì, aprile 19, 2005

Ma Benedetto figliolo

E bravo l'umile vignaiuolo. Non so voi, ma io sono gelato.
La mia fidanzata si aggira per la casa con propositi empi ("facciamoci luterani! Pecchiamo un casino!"), e intanto la rai manda un'intervista di qualche tempo fa, in cui il Papituro attribuisce lo scandalo dei p e d o f i l i americano a un certo clima di lassismo nel clero in seguito al Vaticano II. Dico, è chiaro? Secondo Benedetto XVI il clima postconciliare ha favorito gli approcci dei preti ai bambini. Non saprei proprio cosa aggiungere.

Tranne forse una cosa: è scritto che c'è più gioia in cielo per una pecorella smarrita che viene ritrovata che per migliaia di pecoroni in piazza San Pietro a fare ciao con la manina durante i collegamenti (non è proprio così, ma quasi). Bene, credo che nei prossimi anni lo SS* stia programmando di smarrirne molte, di pecorelle. A maggior gloria di Nostro Signore, amen.

(*) Spirito Santo. O che pensavate?

Il Blog di Ratzinger Papa.

mercoledì, aprile 06, 2005

Unimaginative wanker

Rubrica di intrattenimento personale

Andy Warhol 'Blow job' (1964)

Trentasei minuti di macchina da presa fissa sulla faccia di un ragazzo che si suppone stia ricevendo un pompino. Blow job, il celebre film di Andy Warhol del 1964, mi pone due domande: perché si tratta un film da vietare ai minori di anni 18 come fosse un film porno (o almeno questo è quello che fa la Biblioteca della Sala Borsa di Bologna), e in secondo luogo perché è da considerare un'opera d'arte.

Niente di pornografico appare nel film, tranne il titolo. Bastano le occhiate che ogni tanto il biondino lancia verso la parte bassa dello schermo a suscitare la censura? Un ondeggiare ritmico del capo verso la fine e il socchiudere drammatico degli occhi?
Allora la pornografia sarebbe un linguaggio che scavalca il corpo. Non c'è niente di osceno ma, sembrerebbe dire Warhol, non ce n'è bisogno.
Certo, il paratesto è forte. Proviamo a dimenticare la Factory, la droga, i travestiti, le prostitute: guardando Blow job non è difficile annoiarsi. Per quasi tutto il tempo anche l'attore, sotto una luce verticale e impietosa, non sembra divertirsi più di noi. Capita di dimenticarsi del pompino. Si divaga, ci si domanda cosa stia guardando il ragazzo, se stia soffrendo (come a volte sembra), quanto sia realmente a disagio e se per davvero ci sia del sesso in corso.
Ecco allora cosa fa Blow job, portando la finzione a farsi sempre più rarefatta: sottrae al linguaggio pornografico ciò che la pornografia sottrae al sesso. Il linguaggio di Warhol riesce qui, per un istante malfermo, a illuminare il carattere di invisibilità della pornografia. E questa, cazzo, è un'opera d'arte.

venerdì, aprile 01, 2005

Dove sei stata?

Le persone come la Schiavo, che si trovano in una situazione d'incoscienza prolungata, a me pongono un problema. Che c'entra poco o niente col problema che tormenta gli americani, cristiani o no.

Il mio problema è un po' diverso, non riguarda il dolore, la sacralità della vita (che 2000 anni fa i cristiani sacrificavano allegramente, ma non importa), il tabù del dolore, eccetera. Io, quando vedo persone come la Schiavo - e ahimè ne ho viste, non mi sto a chiedere se soffrano o no, se abbiano il diritto a vivere o a morire o no. Il mio problema è: dove sono? Dov'è stata, Terri, in tutti questi anni?

Mi spiego. Da piccolo mi hanno spiegato che ognuno di noi ha un'anima, che è immortale. Perciò ho sempre diviso le persone in due insiemi: i vivi e i morti. I vivi sono quelli che si possono localizzare, e a cui si possono nascondere le cose.
Invece i morti sono quelli invisibili, che non necessariamente si fanno i fatti miei, però possono farseli. Specie i morti che mi conoscono bene, e che senza dubbio non si perdono un fotogramma di quello che faccio. (Di questa mia idea, fortemente paranoica, potrei incolpare il catechismo della Chiesa Cattolica, non fosse che è credenza diffusa in molti riti animisti, e quindi al massimo la Chiesa si è addossata il fardello di qualche archetipo dell'inconscio collettivo).

Poi, tra vivi e i morti, ci sono le persone come Terri Schiavo, che io non riesco a capire. Dove sono? Se sono vivi, sono lì. D'altro canto, è chiaro che lì non ci sono più. Stanno solo aspettando di andare altrove. Ma nel frattempo è come se non fossero da nessuna parte, e questa cosa mi sgomenta. L'anima è immortale, ma ogni tanto va in coma per dieci, vent'anni. Che senso ha?

Il problema è che confondo anima e conoscienza, e in un involucro ormai privo di conoscienza come Terri Schiavo non riesco più a vedere anima. Ma siccome l'involucro resiste, l'anima non può nemmeno essere altrove: è lì, in sonno.
Questa idea del sonno dell'anima mi perturba molto, e forse ho desiderato la morte di Terri Schiavo solo per liberarmene.